Co.A.S. Medici Dirigenti

Associazione di medici dipendenti ospedalieri Organizzazione di categoria di Medici Ospedalieri Dipendenti dal S.S.N.

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Medici o Caporali ?

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Siamo Medici o Caporali ?

Durante l'elaborazione del testo che sarebbe stato pubblicato
con il nome di Legge 24/2017 sembrava che esso fosse originato
da desideri e obiettivi di cui solo pochi dichiarati e molti non dichiarati,
nella convinzione che, con un unico provvedimento,
si potessero soddisfare interessi diversi, lontani e spesso contrapposti.
Una quadratura del cerchio legislativa.

Invece, dopo la pubblicazione e dopo le immediate dichiarazioni entusiastiche di politici, associazioni di utenti, sindacati medici e assicuratori, sono comparse perplessità e note critiche in progressivo aumento per numero e per peso.

La prima perplessità emersa è stato il riferimento preciso e ripetuto a fantomatiche linee-guida, volute ed invocate da Medici-legali, Compagnie di Assicurazioni ed Utenti per “inchiodare” più facilmente il medico accusato di malpractice, in modo da avere un termine di confronto del suo comportamento rispetto a linee-guida semplici e nette, in una procedura simile ad un calcolo matematico. Il richiamo alle linee-guida sembra essere operato nella legge per semplificare – solo apparentemente – il concetto che si vuole andare a modificare con la legge in questione; infatti fino a un po di anni or sono, il giudice e il medico-legale si rifacevano ai principi “della scienza e della coscienza”.

Non sembra utile in questo modesto elaborato andare a discutere sulla differenza passante tra una linea-guida ed un buon testo di medicina o chirurgia. Allo scrivente, dopo aver reso al “ferrista” il bisturi per l'ultima volta prima di andare in pensione (un mese fa), le “linee-guida” sono sempre apparse – sicuramente erroneamente – come una sorta di “Bignamino”; si, proprio quei riassunti cui ricorrevano anni fa gli studenti del Liceo per preparare in fretta gli esami senza dover leggere tutto il libro. Purtroppo, soprattutto nella Chirurgia d'Urgenza, se trovandoci di fronte ad un paziente complesso, con sovrapposizione di patologie diverse, sentissimo la necessità di scoprire attraverso la consultazione delle Linee-guida la giusta terapia per quel paziente, forse sarebbe meglio che ci prendessimo un bel periodo di vacanza. Mi insegnarono – o forse ho solo capito male – che la scelta terapeutica dovesse avvenire come risultante di un processo mentale in cui scienza ed esperienza si rafforzassero a vicenda per portare ad una sintesi che delineasse il percorso più corretto per quella particolare situazione. La coscienza valutava momento per momento la pericolosità dell'atto e delle scelte; l'esperienza induceva alla correzione delle infinite variabili. Tutto ciò portava ad un sintetico ma completo confronto con l'ammalato e, poi, si procedeva senza più indugi.
Questa visione della terapia medico-chirurgica è stata sempre più etichettata come “paternalistica”, “miracolistica” o “baronale”, obsoleta, non più in grado di produrre gli attuali risultati che sono pretesi da una medicina e chirurgia; peraltro ha permesso attraverso essa che si arrivasse agli standard attuali ed ha permesso che molti medici – invece che pochi – sviluppassero capacità degne di tutto rispetto. Ciò che era alla portata di pochi è diventato bagaglio tecnico di quasi tutti, ma gli ammalati sono diventati contemporaneamente più anziani, più difficili ed in definitiva hanno fatto ricorso all'ospedale sempre di più. Più diagnosi, più casi da trattare, maggior necessità di medici.

Ad un certo punto il risultato possibile solo in pochi centri specializzati è diventato possibile anche nei piccoli centri periferici; era sufficiente saperlo fare. Questa moltiplicazione di risultati positivi, ha determinato la convinzione che il “Medico”, generale o di specialità, non avesse più limiti; i risultati erano lì a dimostrarlo. Ed è in questo momento che gli eventi aversi, i risultati negativi hanno iniziato sempre più numerosi ad essere interpretati e valutati come conseguenza di incapacità o di negligenza o di imprudenza da parte del terapeuta di turno; in quei pochi, talora unici, risultati negativi di una valida carriera ci si iniziò ad accanire ravvisando nella condotta del medico qualcosa che potesse generare il sospetto della “colpa”.

Da anni quindi si è cercato di affrontare il problema della responsabilità professionale non dalla radice ma dagli effetti che stava generando; mi riferisco alla “medicina difensiva”, “contenziosi giudiziari”, “assicurazioni”, “utenti non risarciti” o convinti di essere stati insufficientemente risarciti.

A questa deriva colpevolista della medicina, che viviamo oggi in Italia, alcuni Stati hanno dato immediata risposta risolvendo il problema alla radice: qualche nazione ha stabilito che il risarcimento andasse allo Stato in quanto proprio lo Stato si sarebbe dovuto prendere cura dei danni dell'utente nel proseguo della sua vita, qualche altra nazione ha deciso che i Medici degli Ospedali pubblici non possono essere colpevolizzati perché rappresentano il meglio che lo Stato può mettere a disposizione dei cittadini.

Con la Legge 24/2017 si è cercato effettivamente di ridisegnare e riconfigurare il rapporto tra medico e paziente, però – a mio modesto avviso – è stato saltato un presupposto iniziale e si è passati direttamente – direi quasi in emergenza – al tentativo terapeutico delle conseguenze, cioè della : “medicina difensiva”, “contenziosi giudiziari”, “assicurazioni”, “utenti non risarciti” o convinti di essere stati risarciti in modo insufficiente. Non si è voluto formulare il quesito la cui risposta doveva condizionare tutta l'impostazione della legge: Che tipo di Medicina e che tipo di Medici vogliamo ? Come vogliamo che agisca un Medico Dirigente/Dipendente quando lavora dentro una struttura complessa quanto un ospedale e a quale livello di competenza e capacità dobbiamo pretendere che arrivi, considerati i più avanzati livelli della medicina d'oggi ?
Quale è lo stato tecnico in cui si trovano le strutture dove gli chiederemo di lavorare al massimo livello ?
Che tipo di assistenza vogliamo predisporre per i cittadini e possiamo permetterci ?
Sono sufficienti i “LEA” o miriamo a qualcosa di più ?

Se vi fosse stata una risposta alle varie forme di questo unico interrogativo, la disciplina della responsabilità professionale sarebbe risultata probabilmente molto più semplice e lineare, più chiara e coerente. Se queste risposte sono state date in altre leggi, risultano in ogni caso slegate da questa legge che sembra essere un pannicello caldo sulle conseguenze, più che una riforma organica della “colpa professionale medica”.

L'unico soggetto istituzionale che, a quanto mi consti, ha preso posizione espressa sul punto (subito dopo la Balduzzi), è stata la III Sezione della Cassazione che, piaccia o non piaccia, ha riaffermato che vuole un medico informato ed operativo secondo “scienza e coscienza”, non in astratto – si badi bene – ma rispetto alle condizioni reali che gli stanno intorno mentre lavora, quindi, tenendo conto dello stato organizzativo e strutturale del luogo di lavoro; condizioni che lo stesso medico deve accettare senza poter modificare. Sottolineando quindi che esistono “malati” e non “malattie” e che le linee-guida scritte in un contesto non sono sempre applicabili in contesti diversi.

Peraltro la Corte di Cassazione ha spesso condannato medici in cui rilevava che, pur dipendenti di un Ente pubblico che lavora per la salute dei cittadini e che dovrebbe assumersi direttamente la parte contrattuale di colpa nei rapporti con l'utente danneggiato, avevano avuto e consolidato attraverso un “contatto sociale” un rapporto diretto con il “malato”, con la conseguenza di trasformare una responsabilità professionale in rapporto contrattuale; questa è strettamente dipendente dalla stessa libertà che il Medico o i Medici vogliono e si sentono di assumere.

Il punto su cui infatti mi sembra di dover concludere questa disamina è infatti proprio questo: i Medici (come categoria) si sentono di assumere la responsabilità di quello che fanno e fino a che punto?

Il Medico che è d'accordo con questa ulteriore riduzione della sua libertà d'azione – come pressoché la totalità dei Sindacati Medici – accetta il dettato della Legge 24/2017.
Con questa legge il medico accetta di comportarsi non più secondo “scienza e coscienza” ma secondo “le linee-guida”, rinunciando quindi a quella sua capacità di scelta che è sempre stata alla base della libertà di cura e delle modalità di cura. Una legge che intendeva incidere sulla “responsabilità sanitaria” (non solo medica quindi), andando a configurare un medico che agisce secondo schemi piuttosto rigidi e controllabili, finisce per affrontare solo una modifica procedurale dell'azione di risarcimento della parte che si considera lesa, ma dal punto di vista del medico costituisce la conferma di una ulteriore perdita di dignità della professione medica.

Per cui mi sembra di poter affermare che i Medici hanno perso un'altra occasione per difendere la loro professione, la loro libertà professionale, la loro dignità in cambio di ipotetiche briciole di minor numeri di richieste di colpevolezza.
E allora viene da chiedermi se esiste ancora la “professione medica” oppure se i medici abbiano definitivamente accettato di essere impiegati a pieno titolo.

Iniziata quasi per caso nell'antica Grecia, portata a Roma da schiavi greci pieni di fantasia e dignità, questi uomini-medici stanno riaccettando la indecorosa semischiavitù della tranquilla dipendenza stipendiale nella modestia e dell'imbrigliamento professionale. Alcuni di loro accettano per carattere di svolgere le mansioni tipiche dei “kapò” (o caporali) svolgendo le mansioni di tramite tra i nuovi gestori della sanità e quei medici che, con una dignità spesso superiore a quella del “kapò”, mostrano alte capacità nel lavoro quotidiano.

A questi medici si rivolge il Co.A.S. , chiedendo partecipazione e sostegno nella speranza di riuscire a rappresentarne i problemi e bisogni; a questi medici chiediamo di non accettare il ruolo di “travet della sanità”, piangendosi addosso e lamentandosi senza più la necessaria energia per reagire.